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venerdì 6 aprile 2007

La polemica dei fagiolini

Polemica sulle importazioni dall'Africa. Cresce il commercio solidale: 100 milioni di fatturato ROMA - Se dieci anni fa il regista Fulvio Ottaviano l'avesse saputo, avrebbe forse cambiato il titolo del suo film, per una breve stagione autentico cult della sinistra giovanile. Da «Cresceranno i carciofi a Mimongo» in «Cresceranno i fagiolini a Kongoussi». Perché mentre nella piccola città del Gabon i carciofi sono ancora merce sconosciuta, invece nella località del Burkina Faso i fagiolini crescono eccome. La Coop li compra, grazie a un accordo quinquennale con una cooperativa africana, e li vende nei supermercati italiani con il bollino TerraEqua. Si chiama «commercio equo e solidale». Ma ciò non toglie che quei fagiolini, siano considerati da Rifondazione comunista una vera pietra dello scandalo. Al punto da sferrare un attacco senza precedenti, a mezzo stampa, alla Coop. Questa la tesi presentata in prima pagina da Liberazione: l'operazione danneggia i nostri contadini, che si vedono arrivare sul mercato fagiolini a un prezzo inferiore di oltre un euro al chilo rispetto alla produzione italiana, ma anche i contadini africani, costretti a coltivarli a scapito delle produzioni locali. Come se non bastasse i vegetali arrivano in aereo, con perniciose emissioni di gas serra dai cargo che li trasportano.
Che perfino il fagiolino africano possa fomentare le polemiche a sinistra, in effetti, è proprio il colmo. Anche perché il «commercio equo e solidale», nuova frontiera della solidarietà internazionale, sembrava una delle poche certezze «unitarie». Dalle Botteghe del mondo, un circuito di circa 300 punti vendita organizzati dal consorzio Altromercato, fino alla grande distribuzione che vende prodotti certificati da Transfair, il fatturato di questi prodotti supera ormai 100 milioni di euro l'anno. Nulla, se raffrontato agli 11 miliardi l'anno del giro d'affari della sola Coop. Ma è un «nulla» in continua crescita. Iniziato con le banane, il «commercio equo e solidale» con i piccoli produttori del Terzo Mondo si è allargato ormai ai prodotti tessili e artigianali. Il commerciante deve rispettare regole precise. «L'equo compenso della manodopera, il rifiuto dello sfruttamento del lavoro minorile, il prefinanziamento e la continuità delle forniture per assicurare una prospettiva di sviluppo», spiega Vito Cassata di Altromercato. Che ammette tuttavia come «purtroppo» anche qualche multinazionale «per ragioni di marketing» abbia cercato di infilarsi nell'affare che per ora, in Italia, è in mano alle cooperative, bianche o rosse che siano. Anche per questo nessuno aveva finora pensato che ci si potesse accapigliare. Se si eccettua quello che il presidente della commissione Ambiente della Camera Ermete Realacci definisce «qualche mugugno da parte delle Botteghe nel mondo quando è entrata anche la grande distribuzione» . C'è addirittura un'«associazione interparlamentare equo e solidale» di deputati e senatori che si occupa della faccenda. Mica tre o quattro: sono 120. E di tutti i partiti. Ci sono il capogruppo dell'Ulivo alla Camera Dario Franceschini, Francesco Rutelli, il Ds Nuccio Iovene, Alessandro Forlani (il figlio di Arnaldo) dell'Udc, ma anche Giovanni Russo Spena, Alfonso Gianni e lo stesso segretario di Rifondazione, Giordano. Il presidente è Realacci, che rivela come pure il presidente della Camera sia sensibilissimo al tema: «Anche alla buvette di Montecitorio ci sono prodotti del commercio equo e solidale. La presentazione è avvenuta con Bertinotti, in pompa magna». Quali prodotti? «Cioccolata, succhi di frutta, biscotti, tutto buonissimo». Il caffè «equo e solidale», invece, dice Realacci, è stato sostituito con un prodotto commerciale. «Diciamo che non era il massimo. E questo, lo ammetto, non aveva fatto salire le mie quotazioni alla Camera».
Corriere della sera, 25 marzo 2007

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